Øyen, ballare il cancro
Il coreografo norvegese all’Opéra di Parigi con “Cri de Coeur”, e il 25 e 26 ottobre alle Fonderie Limone , con “Story, Story, Die”
E’sufficiente che un coreografo faccia ricorso alla parola, lavori con l’improvvisazione dei suoi danzatori e subito viene etichettato come “erede di Pina Bausch”. Se poi è stato invitato a Wuppertal a creare un lavoro per la compagnia che fu di Pina , “Bon Voyage, Bob” (unico prescelto insieme a Dimitri Papaioannou), di lì non si scappa. Eppure il norvegese Alan Lucien Øyen è ben lontano dalla signora in questione. Lo si è potuto constatare all’Opéra di Parigi che lo ha invitato a coreografare una serata intera, “Cri de Coeur”, e lo si è verificato due anni fa a Torinodanza con la presentazione del solo “Sinnerman” interpretato da Daniel Proietto. E dove torna il 25 e 26 ottobre alle Fonderie Limone , con “Story , Story , Die” questa volta con la sua compagnia, “Winter Guests”. Se il lavoro torinese, in prima nazionale, si annuncia come un affresco su sogni e desideri di una giovane generazione , “Cri de Coeur” si incammina nel racconto della malattia, un cancro, e la morte. Un viaggio, ma anche un flusso mentale, un accumularsi di diverse sensazioni e sentimenti, in cui ci accompagnano due grandi interpreti: Héléna Pikon , matura ex danzatrice di Pina Bausch, nel ruolo della madre, e Marion Barbeau, la figlia, e protagonista in queste settimane anche sullo schermo nel film “La vita è una danza” di Cédric Klapisch. Barbeau era stata scelta dal coreografo ben prima che i riflettori del cinema puntassero su di lei: il progetto di Øyen per l’Opéra era nato prima della pandemia. Qui la ballerina, dà vita al personaggio della giovane malata con autorità e la capacità di passare attraverso differenti aspetti della sua condizione. Uno stato sottolineato dalla presenza di un letto di ospedale e da alcune t-shirt indossate dai danzatori su cui sono ritratti polmoni malati: un po’ macabro, sì.
Lo spettacolo si sviluppa alternando parti parlate ( molte) e squarci danzati dove il coreografo non aderisce a uno stile preciso ma fa ricorso a diverse possibilità gestuali. Prendendo là dove gli serve.
C’è una atmosfera nordica, luterana? Certamente nella scena in cui tre personaggi si siedono a una semplice tavola imbandita e pregano prima di incominciare il pasto. Una vita semplice. Un piccolo albero di natale. Le scenografie incorniciate e montate su pannelli mobili e spostate a vista dai macchinisti e dai danzatori, disegnano ambienti modesti, paesaggi verdi. Uno spettacolo comunque ricco per un tema serio. Con il ricorso , mai ridondante, al video, che sul fondo della scena proietta i primi piani dei protagonisti. Non manca uno squarcio sul “Foyer de la danse” , quella famosa sala dorata e riccioluta, che sta dietro il palcoscenico e che in alcuni spettacoli viene mostrata allo spettatore.
Una compagnia, quella dell’Opèra di Parigi, di altissimo livello ( ma questo già si sapeva) in grado di passare con nonchalance dalla danza alla recitazione; con la traduzione dei testi in inglese proiettata in alto sopra la scena per il pubblico straniero che tradizionalmente affolla il teatro. Da citare almeno Takeru Coste, ma tutti gli oltre trenta interpreti meriterebbero di essere ricordati.
Lui Øyen, cresce nel mondo del teatro, la Scena Nazionale di Bergen, fondata da Ibsen, , dove il padre era costumista. Respira teatro sin da piccolo, studia danza a Oslo, entra nella compagnia norvegese “Carte Blanche”, lavora con Amanda Miller e manifesta un interesse fascinazione per il mondo consumista americano, titolo: “Kodak”.